Bomba "all'Orsini" Mod.1864 (totalmente inerte e regolarmente provvista di certificato di disattivazione) appositamente realizzata in occasione dell'insurrezione Garibaldina Friulana progettata dal Partito d'Azione dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Durante i preparativi delle insurrezioni garibaldine friulane, 2 esperti fonditori trevigiani costruirono infatti 550 esemplari di bombe all'Orsini.
La bomba all'Orsini è un'antesignana della bomba a mano; di forma ovoidale cui l'esplodente utilizzato dai garibaldini era la comune polvere da sparo con la quale si caricavano fucili e pistole. Anzichè utilizzare una miccia o un qualsiasi sistema a tempo per la sua attivazione, l'innesco della polvere era assicurato da un insieme di foconi, avvitati in vari punti del corpo bomba, che si armavano con capsule esplodenti prima del lancio. L'impatto della bomba lanciata a mano contro un ostacolo solido, con qualsiasi angolo avvenisse, causava l'innesco delle capsule (detonazione) e conseguentemente dell'intero ordigno.
La presenza della lega di zinco e antimonio utilizzata per realizzare la bomba, avendo bisogno di un più basso punto di fusione la rendeva velenosissima e micidiale: anche una semplice ferita provocava la morte.
In un primo momento l'officina dove produrre gli ordigni, fu allestita in un antro naturale denominato la "Fous di Marcat", un chilometro a nord dell'abitato di Navarons (Frazione del Comune di Meduno, Provincia di Pordenone - Friuli). L'antro fa parte di una serie di cavità, prodotte dall'erosione meteorica, poste lungo una frattura di faglia del monte Trep: l'insieme di queste forre prende il nome di "Fous dal Trep". Il nome (Trep toponimo locale; nella carta Tabacco è denominato "Ciù Cul del Signour", 947m) era salibile tramite un sentiero che toccava i prati falciabili del versante est, passando proprio all'interno delle "Fous".
La presenza di una sorgente perenne, la posizione nascosta e la vicinanza al paese furono elementi favorevoli per decidere di installarvi la fonderia. In seguito ad un inondazione la fonderia fu poi spostata dal "Fous di Marcat" a un casolare in "Prà de Marc", sulla strada per Casasola.
Il 16 Ottobre 1864 una cinquantina di uomini armati di fucili e bombe a mano all'Orsini, con il tricolore in testa, guidati da romantiche figure di idealisti, patrioti reduci delle battaglie garibaldine, partirono dal piccolo ed isolato borgo montano di Navarons alla volta di Spilimbergo e Maniago con l’obiettivo di attaccare la guarnigione austriaca, occupare la caserma della gendarmeria, inalberarvi il vessillo tricolore, invitare le popolazioni ad insorgere contro l'Esercito Austriaco.
Iniziava così il primo atto di una complessa guerra per bande di mazziniani e garibaldini, che aveva come scopo quello di provocare l’intervento del Regio Esercito Italiano e di Garibaldi per una definitiva liberazione del Friuli, della Venezia Giulia, del Veneto e del Trentino che allora erano sotto la dominazione austriaca.
Si conosce l'esistenza di altri tre esemplari custoditi al Museo della Guerra di Rovereto, nella Casa Museo Andreuzzi nel Comune di Meduno e nel museo del risorgimento di Udine.
Oggetto storico del periodo risorgimentale garibaldino.
Notizie Storiche:
L'ordigno, antesignano della bomba a mano, fu inventato dal patriota e cospiratore italiano Felice Orsini alla fine del 1857, quando Orsini soggiornò in Inghilterra e chiese all'armaiolo Joseph Taylor sei esemplari della bomba disegnata da lui stesso. La bomba, fabbricata in ghisa, fu provata a Putney, così come in alcune cave di Sheffield e del Devonshire con l'assenso del radicale francese Simon Bernard, e successivamente Orsini ritornò a Parigi con gli esemplari costruiti.
Originariamente la carica esplosiva era fulminato di mercurio il quale, a parità di peso, ha una potenza superiore alla normale polvere da sparo. Questo causa la rottura dell'involucro della bomba in schegge piccole abbastanza da perdere rapidamente efficacia, specie contro vestiti pesanti.La polvere esplodente utilizzata da Orsini era il fulminato di mercurio, sale dell'acido fulmìnico, talmente potente che polverizzò in minutissimi frammenti gli ordigni, così da esaurire la loro forza cinetica contro i vestiti (questa fu la causa del fallimento dell'attentato contro Napoleone III).
Moti Friulani o Moti di Navarons:
Il 16 Ottobre 1864 una cinquantina di uomini armati di fucili e bombe a mano, con il tricolore in testa, guidati da romantiche figure di idealisti, patrioti reduci delle battaglie garibaldine, partirono dal piccolo ed isolato borgo montano di Navarons alla volta di Spilimbergo e Maniago con l’obiettivo di attaccare la guarnigione austriaca, occupare la caserma della gendarmeria, inalberarvi il vessillo tricolore, invitare le popolazioni ad insorgere contro gli Austriaci.
Iniziava così il primo atto di una complessa guerra per bande di mazziniani e garibaldini, che aveva come scopo quello di provocare l’intervento dell’esercito regio italiano e di Garibaldi per una definitiva liberazione del Friuli, della Venezia Giulia, del Veneto e del Trentino che allora erano sotto la dominazione austriaca.
Con quella di Navarons, altre bande dovevano contemporaneamente muoversi nell’arco delle Prealpi venete e friulane ma, per una serie di motivi, i patrioti friulani si trovarono da soli a fronteggiare una decisa reazione degli Austriaci.
Fu Mazzini che pensò di organizzare questa vasta insurrezione popolare che dal Trentino al Friuli avrebbe poi dato origine ad altre rivolte fuori dall’Italia, in Romania, Ungheria, Serbia e Polonia.
Secondo Mazzini questo vasto movimento insurrezionale e il concorso dell’opinione pubblica favorevole avrebbero dovuto trascinare l’esercito italiano in una guerra contro l’Austria.
L’ipotesi mazziniana si fondava sull’organizzazione di bande armate di una cinquantina di uomini ciascuna che dovevano attaccare punti strategici e ritirarsi sui monti, distogliendo quanti più soldati possibili dalle città, così da permettere una sollevazione popolare.
Vittorio Emanuele II nascostamente si era accordato con Mazzini e Garibaldi affinché preparassero, il primo, l’insurrezione e, il secondo, l’intervento armato dei suoi volontari. Questo avrebbe indotto il governo ad una giustificata guerra contro l’Austria per liberare la popolazione italiana delle terre irredente.
Mazzini e il re speravano di prendere l’Austria tra due fuochi, costretta a fronteggiare sollevazioni indipendentiste di ungheresi e polacchi , mentre lo stesso Vittorio Emanuele avrebbe fornito le armi agli insorti veneti.
Napoleone III, venuto a conoscenza di questi progetti, impose il suo divieto assoluto di attacco al Veneto.
Il re si tirò indietro, abbandonò Mazzini e successivamente interruppe una trattativa che aveva iniziato con Garibaldi.
Mazzini non rinunciò ad agire. Sapeva di poter fare affidamento su poche risorse finanziarie, ma decise ugualmente di attuare il suo tentativo, nella convinzione che solo l’insurrezione popolare avrebbe potuto liberare il Veneto dal dominio austriaco. Si assunse personalmente l’onere di organizzare questo movimento mettendo i mezzi necessari a disposizione dei comitati del suo Partito d’Azione dislocati nei territori dell’arco nord-orientale.
Qui nel 1863 vennero costituiti Comitati d’Azione per preparare il piano insurrezionale e formare delle bande armate di patrioti.
Anche in Friuli venne quindi costituito un Comitato d’Azione con presidente il medico Antonio Andreuzzi da Navarons che curò personalmente l’organizzazione della banda armata delle Alpi Friulane.
Dopo lunghi preparativi, contatti con altri gruppi rivoluzionari, ordini e contrordini, il 16 Ottobre 1864 la banda partì da Navarons alla volta di Spilimbergo e di Maniago. In questi due centri riuscì solo a disarmare la gendarmeria austriaca ma non a far insorgere la popolazione. La gente non aderì alla sollevazione.
Constatata l’indifferenza da parte della popolazione locale, la banda con la bandiera in testa prese la via verso Tramonti di Sopra dove pernottò. Il giorno seguente la banda si rimise in cammino con l’intento di unirsi, al Passo della Morte, ai presunti insorti del Bellunese e del Cadore, invece furono costretti a tornare indietro perché le truppe austriache avevano occupato la zona di Ampezzo.
Tra i monti i nostri uomini si erano resi conto che il telegrafo non era stato tagliato come prestabilito e che il comando austriaco aveva potuto rapidamente organizzare la loro caccia. Con l’aiuto di spie gli austriaci avevano fermato i responsabili delle bande del Trentino, del Veneto e del Cadore costringendole all’immobilità.
Le azioni delle altre bande, che di concerto con quella delle Alpi Friulane, dovevano partecipare al moto insurrezionale, non ebbero quindi inizio, perché i gruppi rinunciarono ai loro propositi al tempestivo accorrere della gendarmeria austriaca.
Il moto della banda di Navarons, detta anche banda Tolazzi o delle Alpi Friulane, si svolse dal 16 ottobre all’8 Novembre 1864, e fu una continua fuga tra i monti inseguiti dai soldati austriaci, trovando rifugio nelle stalle e nelle grotte.
Antonio Andreuzzi:
Nasce a Navarons di Meduno il 10 Dicembre 1804.
Il suo primo atto politico risale al 1821 quando, studente liceale a Udine, vestito da cameriere, riesce ad avvicinare, rincuorare e servire, al “Leon Bianco”, cinque carbonari, noti massoni - Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Angelo Brofferio, Giorgio Pallavicini - che la polizia austriaca sta traducendo verso il carcere dello Spielberg.
Si laurea in medicina a Padova e ritorna nella sua Navarons nel 1832, per esercitare la professione medica.
Andreuzzi nell’ambiente universitario era un acceso repubblicano. Sostenitore di Mazzini, aveva aderito a “ La Giovane Italia”, diventando in seguito massone. Nel 1845 ottiene la condotta medica di San Daniele, uno dei centri dove la massoneria è più attiva.
A Navarons, Andreuzzi diffonde la lettura della “Giovine Italia” fra amici e conoscenti, non manca inoltre di mantenere assidui contatti con gli ambienti mazziniani universitari e con il Partito d’Azione. Mentre era studente a Padova partecipa al Moto antiaustriaco di Ciro Menotti.
Nel 1848 è in prima linea durante i Moti che scoppiano in Friuli e nel Cadore: con un corpo di un centinaio di volontari parte da Navarons per portare aiuto a Pierfortunato Calvi. Come ufficiale medico prende poi parte alla seconda guerra d’indipendenza. Memore di tutto ciò, lo stesso Giuseppe Mazzini scrive al medico di Navarons chiamandolo “fratello” e invitandolo a organizzare l’insurrezione per liberare Veneto, Friuli e Trentino.
Dopo i fatti del Friuli del 1864, che egli organizzò a Navarons nel 1864 contro lo stesso dominio asburgico un moto insurrezionale che però fallì, sciolta la banda di Navarons, affronta un’ulteriore odissea, di quasi un mese, fino al 5 Dicembre, giorno in cui attraversa il Po e viene accolto prima a Ferrara e poi a Bologna.
Il poeta Luigi Mercantini - autore “dell’Inno diGaribaldi”e della “Spigolatricedi Sapri” - gli dedica un poema in endecasillabi sciolti, “Le rupidelDodismala” che ai più rimane sconosciuto. Due anni da esule e Andreuzzi, sessantaduenne, partecipa alla Terza guerra di Indipendenza, in qualità di capitano medico, al seguito di Garibaldi a Bezzecca.
Nel 1866 rientra a Navarons. Trascorre gli ultimi anni della sua vita esercitando la professione medica. Muore settantenne, povero e dimenticato, nel 1874 a San Daniele del Friuli.
Felice Orsini:
Orso Teobaldo Felice Orsini (Meldola, 10 Dicembre 1819 – Parigi, 13 Marzo 1858) fu un attivista e scrittore italiano, noto per aver causato una strage, nel tentativo di assassinare l'imperatore francese Napoleone III.
Anticlericale e mazziniano convinto, fu un acceso sostenitore dell'indipendenza della sua terra d'origine, la Romagna, dal dominio dello Stato Pontificio.
Felice Orsini nacque nel 1819 a Meldola, una cittadina romagnola dello Stato Pontificio, sulle prime pendici dell'Appennino forlivese, città che diede i natali a significative figure del Risorgimento Italiano, come Piero Maroncelli ed Aurelio Saffi, importante per i suoi mercati e per la produzione e commercio della seta.
Il padre Giacomo Andrea (1788-1857), originario di Lugo, ex ufficiale al seguito di Napoleone durante la Campagna di Russia, era iscritto alla Carboneria ma era al tempo stesso un confidente della polizia pontificia. Sua madre si chiamava Francesca Ricci (1799-1831) e proveniva da Firenze.
Il secondo nome, Teobaldo, gli fu assegnato dal padre in omaggio alla figura di san Teobaldo di Provins, il santo protettore degli adepti della Carboneria.
L'omicidio:
In tenera età si trasferì a Imola, dove fu affidato alle cure amorevoli del facoltoso zio paterno, Orso Orsini (1786-1864), uomo molto conservatore che aveva fatto fortuna nella coltivazione e nel commercio della canapa. A soli 16 anni, il 5 luglio 1836, tuttavia Felice uccise a colpi di pistola Domenico Spada, il cuoco di famiglia nonché uomo di fiducia dello zio. Orsini nelle sue Memorie scrisse che si trattò di un incidente mentre si esercitava con la pistola sottratta di nascosto allo zio, in realtà dagli atti processuali risulterebbe che il giovane, invaghitosi di una serva, fosse insofferente della presenza dello Spada che lo sorvegliava su incarico del familiare. Felice Orsini fuggì dopo l'omicidio e lo zio Orso, intimo amico del vescovo di Imola Mastai Ferretti futuro Papa Pio IX, cercò allora di proteggere il nipote dalla grave accusa di omicidio volontario mossa dal fratello della vittima, mémore delle numerose liti precedentemente scoppiate tra i due.
Probabilmente grazie ai buoni uffici con le autorità pontificie, i giudici accettarono la versione del colpo partito accidentalmente e lo condannarono a sei mesi di carcere per solo omicidio colposo. Egli però riuscì ad evitare anche tale detenzione ottenendo l'ammissione in seminario, presso il convento degli Agostiniani di Ravenna, dopo aver inviato una supplica al papa Gregorio XVI. Ben presto, però, com'era prevedibile, Orsini abbandonò il convento per trasferirsi a Bologna dal padre; in seguito tornò a Imola dal protettivo zio, che lo convinse a riprendere gli studi.
Attività Carbonara:
Dopo essersi laureato ed aver intrapreso la professione di avvocato, partecipò ai moti di Romagna dell'Agosto 1843. Successivamente fondò la nuova società segreta "Congiura Italiana dei Figli della Morte", attività per la quale fu condannato all'ergastolo, da scontarsi nel forte pontificio di Civita Castellana, nell'alto Lazio. Nel Luglio 1846 uscì per l'amnistia di Pio IX.
Stabilitosi a Firenze, città natale della madre, continuò a dedicarsi attivamente alla cospirazione e, nel 1848, si aggregò al corpo Cacciatori dell'Alto Reno del comandante bolognese Livio Zambeccari. Tra le loro file partecipò alla prima guerra di indipendenza. Tornato a Firenze, il 28 Giugno 1848 si sposò con Assunta Laurenzi.
Seguace di Giuseppe Mazzini, svolse attività rivoluzionarie nello Stato della Chiesa e nel Granducato di Toscana.
All'inizio del 1849 Orsini fu eletto deputato all'Assemblea Costituente della Repubblica Romana, nel collegio della provincia di Forlì, ma l'intervento dell'esercito francese a sostegno del Papa obbligò Orsini a fuggire.
Nel Marzo 1850 si stabilì a Nizza, città al tempo compresa nel Regno di Sardegna, dove aprì un'attività di copertura, la ditta "Monti & Orsini", dedicata alla vendita della canapa prodotta e commerciata dallo zio Orso. Qui nacquero le due figlie, Ernestina (1851-1927) ed Ida (1853-1859); qui Orsini conobbe l'esule berlinese Emma Siegmund, con la quale instaurò un forte rapporto.
La tranquilla vita da commerciante non gli si addiceva: accettò la richiesta di Mazzini di guidare, nel Settembre 1853, un tentativo insurrezionale nella zona di Sarzana e Massa, in Lunigiana. L'azione fallì sul nascere; Orsini decise quindi di trasferirsi a Londra sotto la protezione del suo maestro, lasciando la sua famiglia a Nizza.
Fuga da Mantova:
Nel 1854 preparò altri due tentativi insurrezionali, di stampo mazziniano, in Lunigiana e in Valtellina, entrambi senza fortuna. Durante un suo viaggio clandestino nell'Impero asburgico come agente mazziniano, venne arrestato in Ungheria il 17 Dicembre 1854 e rinchiuso nelle carceri austriache del Castello di San Giorgio a Mantova.
Orsini fu protagonista di una rocambolesca fuga, nella notte tra il 29 e il 30 Marzo 1856, grazie all'aiuto della facoltosa Emma Siegmund, che riuscì a corrompere i carcerieri e ad accompagnarlo in carrozza fino a Genova, da dove s'imbarcò per l'Inghilterra.
L'evasione da una delle fortezze del Quadrilatero, ritenute inespugnabili e simboli della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto, venne subito ripresa dalla stampa di tutta Europa, anche per l'incidente occorso ai fuggitivi che si tramutò in occasione di scherno verso il proverbiale rigore asburgico. Infatti, l'immediata inchiesta ordinata personalmente dal generale Radetzky, oltre alle complicità interne ed esterne al carcere, appurò che la carrozza con a bordo Orsini e la Siegmund ruppe il timone nel cremonese, davanti al posto di polizia austriaco della fortezza di Pizzighettone. I due vennero soccorsi dai gendarmi che provvidero a sostituire il timone rotto con uno nuovo, preso dai magazzini della fortezza. Dell'episodio si venne a conoscenza per il fatto che la Siegmund, presentatasi con il falso cognome di O'Meara, lasciò una somma per pagare il timone, ma la cosa non era prevista dai regolamenti militari. Il responsabile della contabilità, quindi, inviò un dettagliato rapporto all'amministrazione di polizia per sapere in quale capitolo potesse imputare l'entrata, così svelando che la fuga di Orsini era stata ingenuamente favorita proprio dalla gendarmeria austriaca. Uno dei secondini corrotti, Tommaso Frizzi, trovato in possesso della forte somma di denaro ricevuta, fu condannato a otto anni di carcere duro.
Attentato a Napoleone III:
Tornato in Inghilterra, Orsini si rese conto di essere ormai diventato celebre in quel Paese e decise di stabilirsi a Londra, accettando la generosa offerta di un editore per scrivere le sue memorie che pubblicò nei volumi Austrian Dungeons in Italy, del 1856, e Memoirs and Adventures dell'anno successivo. Tentò anche di mettersi in contatto con Camillo Cavour, ma il conte, da abile "tessitore" diplomatico qual era, fiutò il rischio di compromettersi e si astenne prudentemente dal rispondere alle lettere di un "estremista".
Nel 1857 sempre a Londra conobbe il chirurgo francese Simon François Bernard, un fanatico fuggito in Inghilterra per scampare all'arresto per cospirazione nel suo paese. Orsini rimase affascinato dalle idee di Bernard, che gli parlò di un attentato a Napoleone III: con la sua eliminazione sarebbe venuta a mancare al Papa la decisiva protezione francese dello Stato Pontificio, che impediva la sua riunificazione all'Italia. Convinto dalle idee di Bernard, Orsini ruppe i legami con Giuseppe Mazzini e la sua strategia, da lui giudicata "perdente". Decise di proseguire la sua attività cospirativa cominciando ad organizzare l'assassinio di Napoleone III, con l'obiettivo ambizioso - ma illusorio - di innescare una rivoluzione in Francia che potesse propagarsi anche in Italia. Cause scatenanti dell'odio verso il monarca francese, che era già sfuggito tre anni prima all'attentato dell'italiano Giovanni Pianori (1855), furono l'aver affossato la neonata Repubblica Romana restaurando il potere temporale dei papi, e il fatto che Napoleone III avesse quindi tradito gli ideali della Carboneria professati in gioventù negli anni 1830-1831. Per l'occorrenza progettò e confezionò cinque bombe a mano con innesco a fulminato di mercurio, riempite di chiodi e pezzi di ferro. Si trattò di ordigni rudimentali ma efficaci, divenuti successivamente una delle armi più usate negli attentati anarchici col nome di "Bombe all'Orsini".
Raggiunta Parigi dopo aver reclutato altri congiurati, tra i quali il lucchese Giovanni Andrea Pieri, il nobile bellunese Carlo Di Rudio e il napoletano Antonio Gomez, la sera del 14 Gennaio 1858 verso le ore 20:30 il gruppetto riuscì a scagliare tre bombe contro la carrozza dell'imperatore, giunta tra ali di folla all'ingresso dell'Opéra lirica di rue Le Peletier per assistere alla rappresentazione del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini. La prima bomba venne lanciata da Gomez, a seguire Di Rudio e la terza da Orsini. Pieri invece, pochi attimi prima, era incappato in un controllo di polizia dove fu riconosciuto come clandestino e quindi non riuscì a partecipare materialmente all'azione.
L'attentato provocò una carneficina, con 12 morti e 156 feriti, ma Napoleone III fu protetto dalla carrozza, blindata provvidenzialmente dal costruttore con placche di acciaio e perciò rimase illeso, così come l'imperatrice Eugenia, anche se fu sbalzata sul marciapiede completamente coperta dal sangue delle vittime. Orsini e i suoi complici, favoriti dal panico scatenatosi e dal buio, riuscirono a fuggire, ma vennero tutti arrestati dalla polizia poche ore dopo, nei rispettivi alberghi, e tradotti provvisoriamente in una cella della Conciergerie. A tradire gli attentatori fu l'inesperienza e l'emotività del ventiseienne Antonio Gomez, che si rifugiò nella trattoria italiana Brogi, proprio di fronte al teatro, e che durante un controllo dei gendarmi mostrò tali segni di nervosismo (singhiozzi, frasi sconnesse) da non passare inosservato. Portato in commissariato, Gomez non resistette alle pressioni e confessò facendo arrestare tutta la banda nel giro di sole sette ore dall'attentato. Orsini, che dopo il lancio della terza bomba si era ferito ad una guancia, prima di entrare in una vicina farmacia per farsi medicare, aveva abbandonato sulla strada la quarta bomba e la sua pistola dentro un panno di seta. Quindi si era recato bendato a casa sua e si era messo a dormire, venendo svegliato dalla polizia che lo arrestò per ultimo.
Pur non avendo raggiunto l'obiettivo prefissato, l'attentato di Orsini suscitò tuttavia un'enorme impressione e molta rabbia nell'opinione pubblica francese, in gran parte favorevole all'amato sovrano, offrendo all'imperatore l'occasione per attuare una fortissima azione repressiva che portò all'arresto di moltissimi esponenti repubblicani francesi di opposizione.
Nel breve processo in Corte d'Assise che seguì, furono difesi, durante le udienze del 25 e 26 Febbraio, dal celebre avvocato Jules Favre, il quale fu abile nel dibattimento riuscendo a dare di Orsini l'immagine non di un criminale stragista che aveva ucciso degli innocenti ma di un patriota che stava lottando per liberare il suo paese dall'oppressione e dalla tirannide. Orsini e Pieri, sulla spinta della volontà popolare, vennero ugualmente condannati a morte in quanto colpevoli di avere attentato alla vita dell'imperatore. Agli altri due cospiratori invece fu irrogato l'ergastolo, da scontare attraverso i lavori forzati nell'infernale prigione tropicale della Caienna. Di Rudio riuscì a scampare alla pena capitale in quanto di famiglia nobile e influente, mentre a Gomez fu risparmiata la vita perché una volta scoperto aveva reso piena confessione permettendo la cattura dei suoi compagni.
Lettera Testamento:
Dalla prigione della Roquette, senza chiedere la grazia, Orsini scrisse una lettera al sovrano francese, poi diventata famosa, che concluse così:
«Sino a che l'Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell'Europa e quella Vostra non saranno che una chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo d'un patriota sulla via del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre.»
Napoleone III, forse memore del suo passato rivoluzionario, fu favorevolmente colpito da questa lettera e ne autorizzò la pubblicazione; i giornali presentarono Orsini come un eroe. Camillo Cavour, vista la popolarità che aveva raggiunto la missiva e la simpatia che la figura di Orsini ormai emanava, sfruttò la situazione per aumentare la sua pressione politica sulla Francia affinché aiutasse il Piemonte e non lasciasse nelle pericolose mani dei rivoluzionari terroristi l'iniziativa di unificare l'Italia. Ciò condurrà in seguito ai celebri accordi di Plombières.
Felice Orsini venne ghigliottinato a Parigi dal boia Jean-François Heidenreich, subito dopo Pieri, alle sette del mattino del 13 Marzo 1858 nella piazza della Roquette. Morì con fierezza gridando "Viva l'Italia! Viva la Francia!".
Nel suo testamento Orsini aveva dato precise disposizioni di essere seppellito a Londra, nello stesso cimitero di Chiswick in cui allora riposava l'amato compatriota Ugo Foscolo, ma la sua volontà non fu rispettata e il corpo venne gettato in una fossa comune del cimitero di Montparnasse a Parigi.