Cassina Fiorentina appartenuta al Vescovo Jacopo Nacchianti, circa 1550

Cassina Fiorentina appartenuta al Vescovo Jacopo Nacchianti, circa 1550

Cofanetto o Cassina in legno, di forma rettangolare e coperchio a tetto spiovente, modellato e decorato in basso rilievo con pastiglia dipinta e dorata, realizzato per Jacopo Nacchianti Vescovo di Chioggia dal 1544 al 1569.
L'appartenenza della Cassina all'alto Prelato Domenicano si evince dal blasone posto al centro della facciata frontale ed a lui riconducibile, così composto:

Copricapo "Saturno", da cui pendono sei nappe per ciascun lato (emblema episcopale);

Dallo scudo triangolare gotico bipartito a fondo oro, tipico dell'Araldica ecclesiastica, riportante su di un lato una Banda nera rivolta al basso, la quale fa riferimento ad una parte dell'abito domenicano (cappa e mantello neri) indicando rinuncia e penitenza;

Una stella polare a otto punte, simbolo di predestinazione e segno personale di San Domenico poiché si narra che, nel giorno del battesimo, sua madre vide risplendere sulla fronte del Santo una fulgida stella.

Oltreciò, due branche di Leone in decusse, sono correlazionate alla "fortezza" e "valore" mentre, posto sotto ad esse, è raffigurato il Giglio Fiorentino la cui simbologia cristiana vede nei suoi tre petali stilizzati, un allusione alla "Trinità Divina" e, nella base orizzontale, la figura di Maria.

Due scudi a "Testa di Cavallo", sono presenti alle due estremità dei lati spioventi del tetto sui quali sono evidenziati i dipinti della Croce di San Giorgio su di un lato, mentre dall'altro un Aquila rossa, con un Giglietto d'oro in testa, trattiene un drago verde fra gli artigli: questa è l'immagine figurativa dell'antica insegna dell'Ordine di Parte Guelfa (sostenitori del papato) di cui il Nacchianti fu confratello.

A seguire sei Leoni rampanti, ognuno all'interno di una cornice ornamentale e rivolti frontalmente, circondano tre facciate della Cassina a definire lo stemma di Chioggia.

Infine a completare la Cassina, al centro di ogni lato del tetto spiovente, campeggiano due grandi Gigli Fiorentini all'interno di una corona d'alloro, a ricordare la vittoria dei Guelfi sui Ghibellini nella battaglia della Piana di Campaldino (Poppi - provincia di Arezzo) combattuta tra i due eserciti l'11 Giugno 1289.

Indiscutibile è la rarità dell’oggetto in questione così come il suo stato di conservazione che presenta i decori e gli ornamenti pienamente riconducibili e coerenti al periodo rinascimentale, collocando con esattezza la sua realizzazione entro la prima metà del XVI secolo.


JACOPO NACCHIANTI (Nacchiante, Naclantus, de Naclantibus), Giovanni Battista (in religione Jacopo). – Nacque a Firenze il 15 ottobre 1502, dal notaio Andrea di Cristofano e da Dianora di Bardo Gherardini.

La famiglia dei Nacchianti contava molti notai. Di chiare simpatie savonaroliane, avevano rapporti stretti con l’ospedale degli Innocenti e con la Confraternita di S. Zanobi. Nel testamento redatto il 19 Febbraio 1510, poco prima della morte, Andrea nominò erede universale il figlio, indicando tre tutori; ma presumibilmente gli lasciò anche molti debiti. Infatti, dopo la morte del padre (9 Marzo 1510), Nacchianti fu affidato all’ospedale degli Innocenti. Il 22 Febbraio 1518 fece testamento, lasciando i suoi beni agli Innocenti, in preparazione della sua entrata nel convento di S. Marco. Prese l’abito di novizio domenicano il 7 Marzo, assumendo il nome monastico di Jacopo, e fece la professione solenne l’anno successivo. Nel 1528, riconosciute le sue doti intellettuali, si recò a Bologna per studiare teologia presso l’Università, dove strinse rapporti con Michele Ghislieri, il futuro cardinale e papa Pio V. Sei anni più tardi ebbe inizio la sua carriera all’interno dell’ordine con una serie di incarichi in vari conventi dell’Italia centrale: nel 1534, a Perugia, assunse il posto di magister studentium; fu quindi eletto priore a S. Caterina in Pisa il 15 Ottobre 1536 e a Lucca nel Maggio 1537. L’anno successivo, fu chiamato all’Aquila per sostituire il predicatore quaresimale. In seguito, ricoprì una cattedra presso lo studio di Perugia per il triennio 1539-41. Da qui si trasferì al convento di S. Maria sopra Minerva a Roma per proseguire l’insegnamento di teologia. Nel 1541 il suo nome compare tra i definitori del capitolo provinciale romano.

Negli anni successivi, questa promettente carriera cambiò rotta in circostanze poco chiare. Secondo la notizia tarda (e non necessariamente attendibile) del card. Angelo Massarelli, Nacchianti ebbe un conflitto con l’Ordine domenicano e ne venne scacciato (Buschbell, 1910, p. 155 n. 2); altri indizi portano a pensare che si fosse allontanato dalla tradizione savonaroliana. Fu allora che cominciò a frequentare la corte pontificia. Ben presto il brillante teologo attirò l’attenzione di Paolo III, che lo invitò a contribuire ai dibattiti che si tenevano alla sua mensa; divenne anche confessore del figlio del papa, Pier Luigi Farnese, duca di Castro. La stima di Paolo III è resa ancora più evidente dalla nomina (30 Gennaio 1544) alla sede episcopale di Chioggia, in territorio veneto, dove era morto il vescovo Alberto Pascaleo il 25 Dicembre precedente; le resistenze delle autorità veneziane e la concorrenza di altri candidati non impedirono la sua elezione. A Venezia gli giunse l’invito papale a partecipare al concilio di Trento.

Accettò l’invito in una lettera indirizzata al cardinale Marcello Cervini (23 Febbraio 1544), dichiarandosi pronto a contribuire «ad defensionem nostræ religionis» (Buschbell, 1910, p. 294). Era sua opinione che la «peste» («pestis hæc») che la minacciava fosse così avanzata, sia in Germania sia in Italia, che non fosse possibile estinguerla «nisi multo nostro sanguine». Secondo Nacchianti l’amore e il buon senso di un tempo si erano trasformati in un odio «incredibile» nei confronti di «noi curiali» («in nos aulicos»): a Roma non ci si rendeva conto di quanto si sentiva dire ogni giorno a Venezia – «in libera et Christiana civitate» – anche da parte dei primi cittadini. Nel corso dello stesso 1544, Nacchianti si recò a Chioggia per assumere le redini del governo diocesano.

Il suo spirito riformatore è evidente nella decisione di convocare un sinodo per il 12 Aprile 1545. Le poche costituzioni rimaste suggeriscono che fosse deciso a disciplinare il clero diocesano, in particolare i canonici del duomo. Il 5 Maggio 1545 arrivò a Trento, dove ricevette un sussidio al fine di rendere più agevole la sua permanenza in città. Dall’autunno in poi godette dell’ospitalità e della protezione del cardinale di Trento, Cristoforo Madruzzo. All’inizio anche i legati pontifici salutarono l’arrivo del «buon theologo» (Italiano, 2011, p. 745) domenicano con soddisfazione, ma, in seguito, alcuni suoi comportamenti suscitarono perplessità e sospetti d’eresia. Subito dopo l’apertura del concilio, Nacchianti si oppose ripetutamente alle posizioni dei legati, chiedendo fra l’altro che l’autorità dello stesso concilio venisse rafforzata con la formula «ecclesiam universalem repraesentans». Si guadagnò in tal modo fama di «superbo e ambizioso» (M. Cervini, cit. in Mozzatto, 1993, p. 52) e di «rerum novarum cupidus» (A. Massarelli).

Partecipò attivamente ai dibattiti dottrinali che iniziarono nel Gennaio 1546 con la discussione della canonicità delle Sacre Scritture e del valore delle tradizioni apostoliche. Sul secondo punto, in particolare, prese una posizione critica, non solo affermando che le tradizioni non erano di pari autorità rispetto alle Sacre Scritture, ma dichiarando «impium» (Walz, 1961, p. 72) il concetto di parità. Lo scandalo che ne seguì lo costrinse a chiedere scusa, ma evidentemente senza fargli cambiare opinione. Su richiesta dei legati, il papa decise di non lasciarlo tornare a Trento per la sessione successiva.

Di ritorno a Chioggia, dove giunse il 20 Giugno dopo una sosta a Roma, dovette far fronte al primo di una serie di tentativi – tutti falliti – di trasferirlo ad altra sede; lo scopo era quello di liberare la diocesi chioggiotta per l’allora vescovo di Salpi, Tommaso Stella. Nel frattempo si impegnò nel governo diocesano, indicendo una visita pastorale per il 12 Settembre 1546; il suo nome fu però oggetto della polemica antiereticale di alcuni ‘zelanti’ come Dionigi Zannettini detto il Grechetto. Nella primavera del 1548 fu invitato a Roma «sotto nome d’occasione del concilio» (Buschbell, 1910, p. 160 n. 1) ma in realtà a causa di una denuncia per eresia fatta contro di lui dal maestro di scuola di Chioggia Giulio Ercolano. Avendone scoperto il motivo, fu solo a fine estate che, «molto dimesso et humiliato», decise di recarsi alla città papale. Il 20 Novembre il S. Uffizio ordinò il suo arresto «ne recedat, sub pœna privationis episcopatus» (Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, Decreta 1548-1558, c. 1r), mentre incaricò il cardinale Angelo Massarelli di raccogliere informazioni a Venezia.

Quest’ultimo arrivò a Chioggia il 21 Dicembre e, nel corso di otto giorni, interrogò 48 testimoni, completando l’indagine con altri interrogatori a Padova e Venezia. Dei risultati si sa poco in modo diretto (essendo andati perduti i verbali), ma presto un gruppo di difensori di Nacchianti accusò Massarelli di parzialità e di irregolarità procedurali e chiese l’apertura di una nuova inchiesta. Ma le deposizioni convinsero il S. Uffizio a continuare sulla strada giudiziaria. Il 26 Marzo 1549 ebbe inizio a Roma il processo contro Nacchianti, a quel tempo rinchiuso nel convento di S. Maria sopra Minerva, dove rimase almeno fino all’inizio dell’anno successivo. Del processo si sa solo che il S. Uffizio decise di rifare ex novo l’inchiesta del card. Massarelli. L’incarico fu affidato al canonico di Capodistria Annibale Grisonio, un noto cacciatore di eretici, e al domenicano Adriano Veneto. Il testo degli interrogatori – che si svolsero tra il 6 e il 26 Ottobre – evidenziò come i tentativi di Nacchianti di disciplinare la vita dei canonici della cattedrale avessero provocato nei suoi confronti una forte ostilità da parte di questi ultimi; il vescovo inoltre aveva confuso o scandalizzato molti fedeli con un atteggiamento critico, persino ironico, di fronte a molti aspetti della devozione popolare, proponendo invece una vita religiosa improntata all’interiorità, alla fede e alla contrizione. Simili comportamenti causarono forti sospetti di eresia contro Nacchianti, rafforzati dalla sua frequentazione di alcuni luterani a Chioggia e da affermazioni fatte dal pulpito. Il suo percorso teologico, ricostruito in base alla documentazione inquisitoriale, lo mostra deciso a propagare la giustificazione per fede, contrario al valore meritorio delle opere e convinto della presenza solo spirituale di Cristo nell’ostia (Italiano, 2011, pp. 780-788).

Fu assolto in circostanze poco chiare e forse condizionate dalla morte di papa Paolo III (10 Novembre 1549) e dal lungo conclave che portò all’elezione di Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, papa Giulio III, il 7 Febbraio 1550. Evidentemente il perdono gli fu però concesso solo in cambio di una promessa di piena sottomissione ai dettami dell’ortodossia e particolarmente all’autorità papale.

La svolta nell’atteggiamento di Nacchianti risulta evidente da una serie di testi teologici – ancora poco studiati – da lui pubblicati negli anni successivi. Nel primo, un commento all’epistola di Paolo agli Efesini (Enarrationes piae, doctae et catholicae in epistolam Pauli ad Ephesios, Venezia 1553), riportò l’interpretazione dei grandi temi della Riforma – la fede, la giustificazione, la predestinazione – sotto l’insegna dell’ortodossia cattolica, fece un appello alla battaglia antiereticale e riconfermò l’autorità papale. Dedicò il libro a Giulio III, con una personale dichiarazione di obbedienza e di gratitudine per straordinari benefici ricevuti (forse riferendosi alla recente assoluzione).

Il nuovo favore di cui godette Nacchianti è reso evidente dal suo ritorno a Trento, dove arrivò nel Settembre 1551 per partecipare alla tredicesima sessione del concilio. Nei mesi successivi intervenne frequentemente nei dibattiti sull’eucarestia, sulla penitenza e sull’estrema unzione, e fece parte della commissione incaricata di redigere i canoni sulla messa e sull’ordine sacro. Poco prima della sospensione del concilio (Aprile 1552) tornò a Chioggia, dove trascorse un decennio immerso nel governo pastorale e negli studi teologici. Svolse i doveri episcopali con serietà – compì, tra le altre cose, una seconda visita pastorale nel 1554, continuò la riforma del clero e s’impegnò per la difesa dei diritti ecclesiastici – ma evitando il riformismo radicale di una volta. Nel medesimo tempo, le opere teologiche consolidarono la sua nuova fama di divulgatore affidabile della dottrina ortodossa. Questa fama gli valse, ormai in età avanzata, un ruolo chiave nel terzo periodo del concilio tridentino (1562-63).

Tra i dibattiti più aspri ci fu quello sulla residenza dei vescovi. Nacchianti si schierò inizialmente con coloro (tra i quali molti vescovi spagnoli e francesi) che consideravano quest’obbligo di diritto divino anziché ecclesiastico, ma, in un secondo momento, appoggiò i legati nella lotta contro quella posizione che, ai loro occhi, implicava una riduzione del potere del papa.

Il comportamento leale e zelante di Nacchianti fu evidente anche in due trattatelli coevi sul rapporto tra papato e concilio. Nel primo (De papae ac concilii potestate compendiaria enarratio tractatiove, Venezia, ex officina Iordani Ziletti, ad signum Stellae, 1562) sostenne la superiorità del potere papale, respingendo posizioni che tendevano al conciliarismo. Nel secondo (An decreta actaque generalis concilii exigant necessario confirmationem papae compendiaria tractatio narratiove, in Operum tomus primus, apud Iuntas, 1567, pp. 587-595), dedicato al cardinale Carlo Borromeo (il quale aveva proposto questo tema), rispose in modo affermativo alla domanda posta nel titolo cioè «se i decreti e gli atti di un concilio generale debbano necessariamente essere confermati dal papa».

Dopo la conclusione del concilio tornò a Chioggia. Convocò subito un sinodo diocesano, in cui sottolineò il significato storico del tridentino «soprattutto per l’eccellenza della dottrina» (Mozzato, 1993, p. 74): l’autorità dell’assise, confermata dal papa, era «irrefragabile». Su questa base il sinodo si propose di attuare la normativa tridentina. Il vescovo decise anche di riprendere le visite pastorali, ma nel 1568 dovette delegare ad altri questo compito a causa del proprio declino fisico. Negli ultimi anni di vita curò l’edizione delle sue opere, dedicandola al vecchio confratello Michele Ghislieri, divenuto papa Pio V.

Morì a Chioggia il 25 Aprile 1569.


Note Storico-Stilistiche:

È ritenuto che le casse dipinte o decorate e dorate fossero arredi che accompagnavano come dono di nozze la dote della sposa. Vi sono le grandi Casse comunemente dette da corredo e le Cassine, molto più rare, ritenute portagioie o contenitori di oggetti preziosi. Nel corso del tempo, sono intercorse molte discussioni tra gli studiosi nel collocare a Firenze o Venezia la produzione di questo tipo di arredo rinascimentale; molto probabilmente esse furono realizzate in entrambe le città con caratteristiche diverse, tanto è vero che vi sono casse col fronte dipinto da artisti fiorentini ma anche veneziani e, similmente, doveva funzionare così anche per quelle lavorate a pastiglia e dipinte.

La decorazione a stucco, detta a pastiglia, è un impasto di gesso, colla e a volte polvere di marmo per renderla più omogenea, steso con un pennello su una sottile tela fissata al legno. La pastiglia viene modellata come un bassorilievo per mezzo di ferri da graffito o sopra stampi, poi dipinta e dorata. Questa tecnica fu molto in uso, appunto, nel Rinascimento per ornare con tenui rilievi cassoni, cofani e cornici.

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