Cassetta Didattica Scuole Elementari, Nr. 10 Ordigni Inerti Didattici, circa 1940

Cassetta Didattica Scuole Elementari, Nr. 10 Ordigni Inerti Didattici, circa 1940

Cassetta Didattica composta da 10 Ordigni Esplosivi inerti datati al 1940 circa, totalmente inertizzati (la cassetta è accompagnata da dettagliato documento che ne conferma e certifica la totale inertizzazione a norma di legge da parte di autorità competente), utilizzata e distribuita nell'immediato dopo guerra, dall'Istituto Superiore Tecnico d'Artiglieria, a tutte le Scuole Elementari per agevolare gli insegnanti all'istruzione e identificazione di tali ordigni, a tutti gli alunni che frequentavano la Scuola Primaria Elementare, in modo tale che tutti i bambini venissero a conoscenza della pericolosità di tali oggetti nell'eventualità li avessero rinvenuti in cambi, giardini o ambienti da loro frequentati e i quali, fino a qualche anno prima, erano teatro della Seconda Guerra Mondiale. battaglia.
Infatti, nonostante l’impegno degli sminatori, molti ordigni bellici rimanevano ancora disseminati nel nostro territorio, costituendo una grossa insidia soprattutto per i bambini, che spesso, non comprendendone la pericolosità, li prendevano in mano e ci giocavano. Fra gli adolescenti si registrarono morti, oppure delle mutilazioni per l’esplosione accidentale di ordigni.
Per ridurre il numero degli incidenti si diede inizio ad una vasta campagna di informazione, principalmente nelle scuole elementari delle frazioni rurali, per fare conoscere ai bambini i pericoli degli ordigni che si potevano trovare. Furono affissi dei manifesti, nei quali si vedevano dei bambini vittime di esplosioni per avere incautamente maneggiato degli ordigni bellici, e dove erano illustrati i tipi più comuni di bombe e granate in modo che i bambini imparassero a riconoscerli, invitandoli ad avvertire i Carabinieri in caso di rinvenimento.
Alle scuole furono anche distribuite delle scatole di legno che contenevano un campionario di ordigni, ovviamente privati dell’esplosivo, in modo che gli insegnanti potessero mostrarli ai ragazzi, facendoglieli anche toccare. Ovviamente in questo caso l’impatto era maggiore rispetto al vederli riprodotti su un manifesto appeso ai muri della scuola e quindi si pensava che vedendoli dal vero riuscissero ad identificarli meglio e ad evitare gli incidenti.

A metà del 1945 le Amministrazioni comunali imposero I’obbligo ai proprietari dei fondi e ai coloni, qualora avessero avuto il sospetto della presenza di mine nei loro terreni, di darne comunicazione, per la successive segnalazione alla scuola BCM di Forlì. Venne anche imposto il divieto di accendere fuochi o di bruciare sterpaglie per paura di esplosioni, dato che c’erano ancora dei depositi di ordigni inesplosi. Purtroppo non passava settimana senza che si registrassero incidenti.
Ancora oggi l’Ispettorato compartimentale dell’agricoltura per l’Emilia calcola che tra Bologna e la Romagna siano tuttora disseminate una grande quantità di mine inesplose.
In questa guerra contro la morte e l’insidia…
Risale al 27 Giugno 1948 la collocazione della lapide che ricorda i 24 forlivesi deceduti nel corso delle operazioni di sminamento avviate subito dopo la Liberazione, attività di cui si è già parlato in due precedenti testi, e i 30 rimasti feriti, alcuni anche mutilati. Nell’occasione tramite un manifesto, firmato dal Comando Bonifica Campi Minati, Sottosezione di Forlì, e dal Sindacato Nazionale Rastrellatori Mine, Sezione Provinciale di Forlì, che allora comprendeva anche Rimini, furono invitati i cittadini a partecipare alla cerimonia organizzata in occasione dello scoprimento.
Queste le parole scritte sul documento affisso allora in città e che opportunamente Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli hanno pubblicato nel libro “Usfadè (Si farà giorno): “Per ricordare alla cittadinanza l’eroismo di quanti fra pericoli continui e gravi disagi immolarono la vita per la redenzione della terra resa infeconda ed insidiosa dagli eserciti che si contendevano le nostre case, il Comune di Forlì scopre una lapide nell’atrio della sede Municipale.
I compagni superstiti del duro lavoro ormai al termine dei sacrifici, invitano la cittadinanza tutta ad intervenire alla cerimonia per rendere omaggio a tanti oscuri eroi caduti sui campi di lavoro per dare sicurezza ai propri cittadini. In questa guerra contro la morte e l’insidia, per la salvezza e non per la distruzione della vita umana, sono stati restituiti alla ricostruzione della Provincia: 2.800.000 metri quadrati di terreno seminativo”.
Inoltre erano stati bonificati 5 ospedali, 18 stabilimenti industriali, 1 acquedotto, 138 fra ponti e opere pubbliche, 19 chilometri di linee elettriche, 70 chilometri di strade nazionali, provinciali e comunali, 21 chilometri di argini di fiume. Erano altresì stati effettuati 60 pronti interventi e, nel corso di poco più di tre anni e mezzo, furono 55.714 le mine rastrellate.
L’attività di sminamento iniziò subito dopo la Liberazione prima, come accennato, ad opera degli appositi reparti militari sulle strade principali e successivamente da personale civile. Per sollecitare l’arruolamento furono affissi avvisi nei luoghi più frequentati. Come quello che mi ha segnalato di recente il collezionista e cultore di storia locale Mattia Arfelli a firma del sindaco Franco (Cesena 1896 – Forlì 1985). Il manifesto porta la data del 22 Gennaio 1945 ed ha questo testo: “Dovendosi provvedere alla costituzione di squadre per la ricerca di mine inesplose, si invitano i giovani che intendono presentarsi a tale servizio a darsi immediatamente in nota presso l’Ufficio Patrimoniale del Comune (Geom. Valbonesi).
Le prestazioni saranno adeguatamente retribuite”. Successivamente, l’8 Luglio 1945, sarà l’Ufficio Provinciale del Lavoro a pubblicare un manifesto “per l’istituzione di squadre di artificieri patentati, dietro incarico della Direzione d’Artiglieria di Bologna, per il completo rastrellamento degli esplosivi nel territorio della provincia di Forlì; i prescelti riceveranno 500 lire al giorno”, che denota un approccio più “organizzato” per affrontare il problema, perché erano già state tante le tragedie che avevano causato vittime fra tutti gli strati della popolazione.
Antonio Mambelli nel suo “Diari degli avvenimenti in Forlì e in Romagna dal 1939 al 1945” (pubblicato nel 2003 da Laicata a cura da Dino Mengozzi) riporta una drammatica sequenza di fatti luttuosi che qui si riportano a beneficio di chi legge, perché entrambi i volumi sopracitati non sono più in commercio (sono comunque sicuramente consultabili presso la Biblioteca Aurelio Saffi quando è aperta al pubblico):
10 Gennaio 1945 – Sono segnalate disgrazie in campagna, dovute all’imprudenza dei ragazzi che raccolgono, per curiosità, e maneggiano ordigni di guerra inesplosi.
15 Gennaio – Una mina tedesca scoppiata nei pressi del ponte di Schiavonia, cagiona la morte di un carabiniere in servizio e di un cittadino; restano feriti un secondo carabiniere e un civile.
5 Febbraio – Muore a Branzolino, per lo scoppio di una mina, il tredicenne Nino Conficoni.
18 Febbraio – Per lo scoppio di una mina muore a Roncadello il colono coadiuvante Mario Bertozzi di 29 anni, da Mercato Saraceno. Muore in Villa Ronco per scoppio di mine il colono Giuseppe Cappelli.
20 Febbraio – Per l’esplosione di una mina abbandonata dai tedeschi come insidia, muoiono in
Villafranca tre coloni della famiglia Cortesi: Aldo di Silvestro, di 13 anni, Silvestro di anni 41, Alvaro, suo fratello, di 34 anni. Muore anche Egidio Bosi, di 16 anni.
26 Marzo – Morte in Villa Ronco di un contadino, per scoppio di mina.
16 Maggio – Morte di un ragazzo in parrocchia di Malmissole per aver colpito una mina con un sasso: la sciagura è avvenuta nel campo della famiglia Massa, detta dei “Gaten”, mentre i coloni falciavano l’erba. È rimasto pure ferito gravemente il capo di casa, al quale hanno dovuto amputare una gamba.
11 Giugno – Nel maneggiare un ordigno di guerra deposto dai tedeschi in un recipiente di cemento di fronte al costruendo Palazzo di Giustizia in piazza 20 Settembre, è morto il bimbo Giorgio Bedei di 8 anni. I suoi compagni erano riusciti ad allontanarsi prima dell’esplosione.
4 Luglio – All’ospedale, muore per lo scoppio di un ordigno di guerra lo scolaro Alessio Renna di 11 anni.
17 Luglio – Muore in San Pancrazio lo “sminatore” Marcello Dal Monte di 25 anni.
2 Agosto – Muore in un campo di bonifica lo sminatore Sergio Casadei di Forlì.
18 Agosto – Nel rimuovere una catasta di legna in cui era deposta una mina tedesca che è scoppiata, è rimasto ucciso il bracciante Vincenzo Anastasi.
Nel giornale repubblicano milanese “Il Popolo Sovrano” del 30 Agosto 1945, Arturo Caprini delinea un quadro tragico delle condizioni della Bassa Romagna, a cagione delle mine, e rileva che la bonifica del territorio dagli ordini procede a rilento. Così, intere zone ricche di frutteti sono convertite in campi di morte. Alcuni civili agiscono per conto loro, in vista dell’alto guadagno o per spirito umanitario, compiendo veri miracoli di abnegazione: un ragazzo da solo ha liberato circa 2.000 ettari di terreno. Lo stesso Adriatico è infestato da mine, ma i rastrellamenti si sono compiuti solo in direzione di Venezia: su quello specchio d’acqua i motovelieri navigano in convoglio preceduti da uno spazzamine.
25 Settembre – Alcuni operai che lavoravano alla Fornace Malta sono rimasti vittime di una mina urtata da un piccone. Sono morti Luciano Servadei, di anni 17 e Mario Savorelli di 38; feriti, Giulio Tassinari, Francesco Garavini, Ellero Molinari. Mario Savorelli di Villa Rotta: lascia cinque figli e la moglie.
7 Ottobre – Per lo scoppio di un ordigno di guerra, muore lo scolaretto Orlando Arfelli di 11 anni: nel giocare, aveva casualmente urtato una mina.

Dopo la guerra, la rinascita:
Fra tante notizie luttuose e pur di fronte ad una situazione drammatica i segni per la ripresa delle attività e della vita collettiva iniziavano a farsi strada. L’impegno delle ricostituite forze politiche e sociali dopo venti anni di dittatura era palese perché si faceva sentire il supporto dei cittadini desiderosi di decidere del proprio destino. Una delle iniziative che maggiormente diede il senso della voglia di girare pagina fu la decisione della Sezione di Forlì del Partito Democratico Cristiano, che allora aveva sede in piazza Ordelaffi, di voler inviare gratuitamente un gruppo di bambini al mare presso una colonia marina di Rimini. Per promuovere tale soggiorno fu fatto affiggere un manifesto datato 25 Luglio 1945, secondo anniversario della caduta del fascismo e dell’arresto di Benito Mussolini (data scelta appositamente? ndr).
Scrivono a tale proposito Gioiello e Zambelli nel libro “Usfadè”: “La colonia nasce dalla collaborazione con la Casa Salesiana di Forlì, il cui direttore, don Pietro Garbin, si è accordato in proposito con i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice di Rimini, per dare vita, nel loro istituto, ad un soggiorno di 50 bambini dal 1° al 15 agosto. Per lo stesso periodo viene programmata anche una colonia per 150 bambini che saranno ospitati presso l’Istituto “Santarelli” in via dei Mille (da non confondere con l’omonimo istituto di via Caterina Sforza ora soppresso ndr). La refezione è assicurata dalla stessa Democrazia Cristiana”.
Da segnalare che in seguito verranno organizzate altre Colonie marine, montane e campi estivi promossi dalla Camera Confederale del Lavoro, dai partiti Comunista, Socialista, Repubblicano, Socialdemocratico e dall’Unione Donne Italiane.
Non è opportuno fare analogie con l’oggi caratterizzato da una situazione di grave emergenza determinata dal diffondersi del virus Covid 19 con tutte le ripercussioni del caso. Sicuramente quando i nostri bambini potranno andare al mare in sicurezza e noi con loro, essendo per i romagnoli una meta obbligata, si potrà dire che effettivamente la pandemia in atto sarà stata debellata con il contributo di tutti. Una cosa è certa. Dopo il Secondo conflitto mondiale fu determinante la volontà dei cittadini per costruire un’Italia diversa e le forze politiche svolsero la loro funzione secondo questa spinta che proveniva da tutta la società. Oggi saremo in grado di fare altrettanto? L’appello, non dell’ultima ora, di Papa Francesco di lasciare da parte l’egoismo e di non dimenticare gli ultimi ci deve far riflettere per individuare la strada da percorrere.

Gabriele Zelli

A settantacinque anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, continuano ancora oggi gli interventi degli artificieri per il disinnesco di residuati esplosivi che hanno coinvolto l’intero territorio nazionale. Gli specialisti del Genio Civile e di altre forze militari compiono annualmente circa tremila operazioni per disattivare e rimuovere bombe d’aereo anche di grandi dimensioni, come quella avvenuta lo scorso 15 dicembre proprio qui a Brindisi, ma anche di innumerevoli piccoli ordigni, come bombe a mano, granate di artiglieria e cartucciame vario, materiale dal potenziale esplosivo inferiore ma non meno letale.
Nell’immediato secondo dopoguerra non furono pochi gli episodi durante i quali rimasero gravemente feriti, o persino uccisi, numerosissimi ragazzini mentre maneggiavano ordigni inesplosi. Fu persino emanata una apposita legge, la n. 1784 del 26 Ottobre 1952 (“Norme per salvare i ragazzi d’Italia dalla deflagrazione di ordigni di guerra”), dove veniva fatto obbligo al Ministero della pubblica istruzione di curare la propaganda per la prevenzione di questi danni, disponendo corsi periodici a cura degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie inferiori, per spiegare agli alunni il pericolo mortale al quale andavano incontro nel maneggiare gli ordini rinvenuti. Inoltre chi ritrovava esplosivi di ogni specie, e non ne dava immediata comunicazione alle autorità di pubblica sicurezza, era passibile di pene molto severe, compresa la reclusione fino a sei mesi.
Pochi mesi prima, esattamente il 12 Aprile del 1952, proprio a Brindisi l’esplosione di una bomba a mano di tipo “Breda” in alluminio, contenente ben 63 grammi di tritolo ed utilizzata durante l’ultimo conflitto dall’esercito italiano, aveva causato la morte del piccolo Bruno Morleo: secondo quanto riportato nel rapporto stilato dalla Prefettura locale ed inviato al Ministero dell’Interno, l’undicenne aveva trovato l’ordigno nella vicina campagna e l’aveva nascosto sotto mucchi di sarmenti in un cortile di un vicino di casa, in via Po al rione Perrino. Quella mattina il ragazzino, circondato da altri bambini incuriositi, aveva ripreso la bomba e sulla soglia della propria abitazione aveva cercato di smontarla “forse per ricavarne le parti metalliche ricercate dai rigattieri”, provocando l’inevitabile deflagrazione dell’esplosivo. Il piccolo Bruno moriva subito dopo lo scoppio, rimasero feriti i suoi tre fratelli, Anna Maria, Giovanni e Franco, rispettivamente di sei, quattro e un anno, e la loro madre Maria Palmisano, insieme ad altri ragazzini che si trovavano nelle immediate vicinanze, Michele Daniele (5 anni), sua sorella Anna (di 3 anni), Federico Tofani (5 anni), Teodoro Giannotta e Lucia Allegrini, tutti prontamente ricoverati presso l’ospedale civile di Brindisi con le ambulanze della Marina Militare e del Comune.
Molto probabilmente l’episodio, e il timore di ulteriori pericoli, aveva indotto alcuni incauti possessori di materiale esplodente a disfarsene abbandonandoli sconsideratamente per le vie della città e nelle campagna limitrofe. Nei giorni successivi infatti furono segnalati in via Mazzini tre proiettili anticarro funzionanti, e altre dodici cartucce per fucile e quattro cartucce per pistola automatica tipo inglese furono rinvenute, sparse per terra, nel Parco delle Rimembranza. Il 16 Aprile alcuni contadini intenti nelle operazioni di aratura dei terreni di contrada Sbitri, rinvennero circa 200 ordigni esplosivi di vario tipo (proiettili di artiglieria, cartucce per fucile e spezzoni) tutti efficienti. Il 15 Luglio in Cala Materdomini furono ritrovate avvolte “in tela di sacco” ben 29 bombe a mano e durante la stessa mattinata, scandagliando la scogliera nei pressi di Bocche di Puglia, vennero recuperate altre 49 bombe a mano dello stesso tipo e due scatole di detonatori. Tutti i materiali vennero rimossi e consegnati nel locale Deposito di Artiglieria.
Alcune settimane prima del tragico incidente numerosi materiali bellici erano già stati rinvenuti alla periferia del rione Commenda (18 spezzoni fumogeni incendiari da mortaio di fabbricazione tedesca), e sempre nello stesso quartiere alcuni ordigni di guerra furono scoperti durante lo scavo delle fondazioni degli alloggi per i lavoratori, sul suolo ex Moriondo; nei rapporti stilati dalla Questura, Prefettura e Carabinieri sono riportati ulteriori ritrovamenti di cartucce e proiettili da mortaio non esplosi, oltre a diversi quantitativi di balestite (polvere da sparo), tutti materiali rinvenuti nelle zone della città particolarmente colpite durante i bombardamenti del 1941, in particolare nei pressi di via Sant’Aloy e via Manzoni.
In vista dei numerosi, gravi e spesso mortali incidenti che continuavano a verificarsi per lo scoppio di ordigni bellici inesplosi, il Ministero dell’Interno ribadì la necessità di una rigorosa osservanza della legge n. 1784, con l’avvio di una vasta campagna di informazione e con l’obbligo di affissione, più volte l’anno, di appositi manifesti predisposti dal Ministero della Difesa utili a mettere in guardia i cittadini ed in particolare i ragazzi, sul pericolo per l’incauto maneggio e smontaggio di ordigni bellicosi occasionalmente ritrovati.
Sui manifesti venivano rappresentati dei bambini vittime di esplosioni dopo aver incautamente maneggiato gli ordigni bellici, talvolta venivano illustrati i tipi più comuni di bombe e granate in modo che si potessero riconoscere. Venne rinnovata alle autorità scolastiche ed ecclesiastiche, in specie a quelle che avevano sede nelle zone rurali dove gli incidenti si verificano con maggiore frequenza, ad insistere nella propaganda e nel rappresentare ai ragazzi tutta la gravità del pericolo.
Nel Febbraio del 1954 l’Arcivescovo di Brindisi Nicola Margiotta scrisse al Prefetto assicurando la collaborazione del clero nell’opera di prevenzione, così come il Provveditore agli studi confermò l’impegno, suo e di tutto il personale insegnante, nell’azione divulgativa e conoscitiva dei materiali pericolosi con l’utilizzo di cinque cassette di legno contenente un campionario di ordigni esplosivi inertizzati (privati dell’esplosivo) forniti dalla Direzione Artiglieria di Taranto: gli insegnati potevano così mostrarli agli alunni facendoli anche toccare, con un impatto maggiore rispetto al vederli riprodotti su un manifesto appeso ai muri della scuola, così da poter essere meglio identificati ed evitare ulteriori incidenti. Due di queste cassette, insieme alla ricca ed interessante documentazione consultata per l’elaborazione della presente nota, sono custodite nei depositi dell’Archivio di Stato di Brindisi, a disposizione degli studiosi.
In quegli anni la ricerca e la raccolta clandestina di questo pericoloso materiale veniva spesso incoraggiata e favorita da parte di incettatori e piccoli commercianti di oggetti metallici fuori uso, con la speranza di modesti guadagni, tutto ciò produceva non poche mutilazioni o luttuosi incidenti, determinati essenzialmente da imprudenze e incaute manovre dei ragazzi, non consci del pericolo. Pertanto era diventato essenziale richiamare l’attenzione delle famiglie sulla necessità di evitare, nel loro interesse, di raccogliere qualsiasi oggetto che avesse pure l’apparenza di ordigno esplosivo, e di darne immediato avviso al Sindaco della città o agli organi di Pubblica Sicurezza.
Purtroppo ancora pochi anni fa, nel Marzo del 2013, tre ragazzi tra i 16 e i 18 anni della valle di Susa rimasero gravemente feriti dall’esplosione di una bomba a mano di tipo Breda, la stessa che uccise il piccolo Bruno Morleo nel 1952. I giovani sarebbero stati attratti dalla “cupola” di colore rosso dell’ordigno che spuntava dal terreno mentre si trovavano nel campo per preparare il terreno alla semina delle patate.
L’emergenza del nostro Paese, pertanto, non è ancora conclusa.

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